TFF OFF VI edizione 2016 / Recensione

Eclisse senza cielo

Eclisse senza cielo

Carlo Michele Schirinzi – 2016
37′
Italia
Onde

Trentasette minuti di poesia da toccare, una catabasi nell’opera dell’artista Romano Sambati, che apre con una citazione di Deridda: “non c’è cenere senza fuoco”. Il film, suddiviso in microcapitoli, ci mostra i gesti/le gesta di un artista particolare, ma forse con l’idea di fare una panoramica sulla processualità che caratterizza il lavoro di un artista in generale, dell’artista in assoluto. Il processo è precisamente ciò che distingue la pittura e la scultura dalle altre arti (fotografia, video, assemblage di oggetti). Pittura e scultura evolvono nella pratica quotidiana, come la muta di un serpente; l’immagine di chi dipinge e di chi scolpisce rimane ai nostri occhi quella di un demiurgo che impasta la materia e che crea la vita. Le mani rugose di Sambati sono quelle di un alchimista che spende il suo tempo a “cucinare” gli elementi, in esse vi è la memoria di gesti che si sono modellati nel tempo, nel processo artigianale, appunto, della sua singolare creazione. “Furia iconosclasta” leggiamo nella descrizione di Eclissi senza cielo nel programma del TFF, ma forse non è proprio così, qualcosa è rappresentato, ma è qualcosa di impalpabile, nonostante la materialità dei gesti: strappare, modellare, intingere le setole nel colore e infonderlo nelle fibre della tela. L’eclisse di cui parla il film in realtà è il meccanismo di apparizione e scomparsa dell’immagine in sé e, non a caso, un capitolo è interamente dedicato all’ “archetipo” (mi viene da dire) femminile, prima fonte del mistero della nostra apparizione. Nel sonoro spesso avvertiamo la presenza dell’acqua: forse non sono solo i pennelli da sciacquare, ma questo, il fluire, il nascere e il divenire. Vedere e toccare sono un tutt’uno in questo film (che è veramente un’esperienza tattile) e sono molti i riferimenti filosofici che si potrebbero tirare in ballo, in primis il teorico della percezione Maurice Merleau-Ponty. C’è però da chiedersi quanto questa visione possa restituire a un pubblico non iniziato alla riflessione estetica e diventa chiaro come un regista inevitabilmente “scelga” (sempre) il proprio pubblico. Siamo in quel campo in cui l’arte riflette su stessa, poco importa che i due canali utilizzati (cinema e pittura) seguano linguaggi autonomi. La domanda però sorge spontanea: può la bellezza gratuita di queste immagini assumere una valenza metaforica altra, in grado di impattare anche su chi non pratica l’arte?
L’opera dell’artista “alchimista”, come lo abbiamo definito, è necessariamente un lavoro in solitaria, ma che, alla fine, porta alla creazione di un manufatto che prende forma per essere sottoposto allo sguardo altrui. Nutro la speranza che un pubblico digiuno di riflessioni estetiche possa rimanere affascinato dal lavoro di Sambati/Schirinzi e non classificarlo come un mero solipsismo, ma il rischio c’è. Qualche nota negativa: il montaggio ci propone a intermittenza l’artista che fuma, assorto in una riflessione o in contemplazione della sua opera, un’immagine decisamente già vista che purtroppo crea un “ritornello” un po’ banale all’interno della visione. Il finale, con un bombardamento di dipinti (tra cui quello dell’eclisse) e uno scorcio di cielo risulta vagamente didascalico. Un vagheggiamento poetico, appagante, suppongo, per la dozzina di persone presenti in sala, tra cui, amaramente, chi scrive.

Giulia Dellavalle