MONDO ALTERATO / FEDERICA DADONE / REGNO UNITO

 

Federica Dadone / Regno Unito / Aprile 2020

Federica Dadone vive nel Regno Unito

Nonostante la propaganda anti immigrati che si è diffusa violentemente in UK negli ultimi anni (da ben prima della Brexit, già dai tempi delle aperture dell’Unione Europea verso est dieci anni fa) e il pregiudizio contro “gli immigrati che vengono a rubare i nostri benefit”, lo stato sociale britannico non è sicuramente qualcosa da invidiare, perlomeno venendo dall’Italia, che pur con tutti I suoi problemi e le sue contraddizioni ha uno stato sociale ancora solido.

Nelle settimane in cui la situazione della pandemia in Italia e poi in Spagna iniziava ad essere molto grave, ancora prima del primo decreto Conte che ha messo l’Italia in lockdown, mentre in UK il premier Boris Johnson e il resto del governo proclamavano di stare tranquilli, che non sarebbe successo niente, di prepararsi a “perdere i propri cari” e che comunque “gli inglesi avrebbero affrontato il virus a testa alta”, la percezione “dal basso” era che nessuno stesse davvero credendo a queste parole. I segnali si sentivano già dai primi di marzo, quando gli alberghi e i ristoranti hanno cominciato a svuotarsi, complice l’afflusso sempre più ridotto di turisti dall’Asia e poi dall’Europa e dagli Stati Uniti. Lentamente il settore dell’hospitality ha iniziato a soffrire, ed è stato (almeno questa è stata la mia percezione, forse perché ho molti amici che lavorano nel settore non solo a Londra come cuochi, chef, camerieri e dipendenti di alberghi) il primo a subire l’impatto di quello che stava per succedere. Nel giro di pochi giorni tutti quelli che avevano contratti a zero ore (sostanzialmente contratti a chiamata) sono stati lasciati a casa, senza nessun tipo di protezione o tutela. Come immaginabile, la maggior parte di chi non ha tutele contrattuali sono stranieri, giovani, studenti, o persone che provengono già da contesti di difficoltà. A metà marzo anche molte persone in altri settori che avevano contratti a tempo determinato di vario tipo sono state lasciate a casa senza rinnovo. Mentre succedeva tutto questo, le persone hanno iniziato ad assalire i supermercati svuotandoli dei beni di prima necessità (pane, latte, uova e la famigerata carta igienica per cui siamo stati derisi in tutto il mondo), dimostrando chiaramente che nessuno credeva davvero ai proclami di serenità del governo – anzi, da comunicatrice, la mia osservazione è che fare una conferenza stampa dicendo chiaramente ai propri cittadini quello che sta succedendo, dimostrare di prenderlo sul serio e di stare prendendo misure di contenimento, avrebbe tranquillizzato tutti molto più delle prime dichiarazioni sbruffone poi ritrattate nel giro di pochi giorni.

In tutto questo noi italiani nel Regno Unito abbiamo tutti vissuto per settimane con la brutta sensazione addosso di essere delle Cassandre, di passare il nostro tempo a urlare nel tempo che dovevamo fare attenzione, che il Governo stava aspettando troppo a intervenire, che avremmo dovuto lavorare da casa (chi poteva ovviamente), con ben pochi esiti a parte spesso la derisione o l’essere presi per matti, o esagerati.

Sono state settimane strane, vissute in una distopia lancinante tra la preoccupazione per le famiglie e gli amici in Italia (e in altri paesi d’Europa) e la vita quotidiana in un paese che ha fatto finta di niente fino all’ultimo momento possibile: è stato in un certo senso come “vivere nel futuro”, o perlomeno metà nel passato e metà nel futuro, in una scomodissima posizione a metà, impotenti in entrambe le dimensioni.

Il mio personale aneddoto di questa distopia è di venerdì 13 marzo scorso: con l’Italia già in lockdown e Boris Johnson in televisione a parlare di immunità di gregge, sono dovuta andare a Fitzrovia, in pieno centro di Londra, per un colloquio di lavoro. Ho preso la metro, sono scesa a Oxford Circus, ho fatto l’ultimo colloquio per un lavoro a cui tenevo moltissimo in un’atmosfera estremamente rilassata, giusto con l’accortezza di non stringersi la mano. Durante quelle due ore il mio telefono stava letteralmente esplodendo di messaggi di amici italiani che mi imploravano di fare attenzione, di chiudermi in casa, e se potevo di rientrare in Italia, dove sarei stata più al sicuro.

Sappiamo come sono poi andate le cose. Nella seconda metà di marzo, mentre chi poteva nel paese ha iniziato a mettersi in isolamento in autonomia, mentre i supermercati venivano saccheggiati nonostante i proclami delle autorità e le suppliche di medici e infermieri (numerosi appelli sono diventati virali sui social media di operatori sanitari smontati dopo turni infiniti che non riuscivano a trovare cibo in nessun supermercato sulla via di casa), e mentre il numero di disoccupati aumentava giorno dopo giorno in linea con il numero dei contagi, nella più totale assenza di una risposta adeguata del governo, hanno iniziato a nascere anche iniziative spontanee di sostegno reciproco nella società.

La più evidente, diffusa in tutto il paese, è stata la nascita di gruppi di sostegno locale in tempi di COVID, a livello cittadino o – nel caso di Londra, che è una metropoli enorme – di quartiere. Cittadini che hanno iniziato a discutere ed autorganizzarsi via Whatsapp e gruppi Facebook, per creare comitati locali di supporto ai cittadini più a rischio, anziani, malati o indigenti. Ci si è organizzati per stampare biglietti da lasciare nelle buche delle case, scritti in tutte le lingue conosciute dai membri del gruppo, con i riferimenti per chiedere aiuto: per fare la spesa, ritirare medicine in farmacia, o qualsiasi altra necessità. Giorno per giorno le richieste vengono smistate tra i membri del gruppo. Vengono usati anche per condividere informazioni sui servizi attivi a livello locale, come i piccoli negozi di alimentari che effettuano consegne a domicilio (anche a Londra le liste d’attesa per la spesa online presso le grandi catene di supermercati sono di settimane). Il governo, nel frattempo, ha approvato alcuni ammortizzatori sociali, che coprono alcune categorie di lavoratori (ma ad esempio, fino ad oggi, non è stato fatto nulla per i self-employed, categoria molto numerosa in UK, ancora in attesa di poter avere un supporto nel momento in cui moltissimi di loro non possono lavorare); le richieste per Universal Credit (una sorta di indennità di disoccupazione, che ammonta a circa 90£ a settimana, una cifra davvero non sufficiente per nessuna esigenza) sono decuplicate, tanto che l’homepage del sito annuncia ai cittadini che si accingono a fare richiesta di non aspettarsi una risposta prima di alcune settimane dato l’immenso afflusso di richieste, molto più alto della media in tempi normali. Sono iniziati a nascere anche comitati che si battono per uno sciopero degli affitti: nulla è stato fatto a livello ufficiale in questo senso, ma la working class e la middle class inglesi sono in seria difficoltà. Chi ha perso il lavoro, o non può lavorare, ed è in attesa di un sostegno economico pubblico, probabilmente può sopravvivere un mese, ma non di più, soprattutto con un affitto (salato) da pagare. Non se ne parla ancora molto sui media ufficiali ma probabilmente maggio sarà un mese decisivo in questo senso. Il governo ha anche varato un piano di reclutamento di cittadini volontari a sostegno dell’NHS, che però, è notizia di questi giorni, non è di fatto ancora stato avviato (nonostante le migliaia di cittadini che hanno applicato per partecipare) per “difficoltà tecniche”. Amici non inglesi mi hanno detto, per inciso, che la loro application è stata rifiutata “perché non sono cittadini britannici”.

Io, nel frattempo, ho deciso di non rientrare in Italia: avrei messo in pericolo troppe persone, e sarei dovuta andare a casa dei miei genitori dopo un viaggio complesso (in quel momento erano rimasti solo i voli Alitalia “dei rimpatri” tra Londra e Roma, e da Roma mi sarei dovuta arrangiare). Oltretutto l’incertezza era troppa per lasciare la mia vita a Londra e correre in Italia, peraltro in un momento in cui l’apice del dramma si avvicinava a grandi passi.

Con la forza della disperazione (erano settimane davvero difficili) ho caricato un po’ di vestiti e di cibo su una macchina e sono scappata in Galles, a passare la quarantena con amici, in una situazione molto più serena di Londra. I contagi sono alti anche qui, ma la densità abitativa è molto minore, c’è molta più natura (di cui possiamo godere, visto che qui non hanno mai chiuso i parchi), abbiamo un bel giardino, e il Galles ci ha regalato cinque settimane ininterrotte di sole (cose mai viste, ovviamente un regalo per tutti noi in lockdown). La situazione è preoccupante, ma qui sono riuscita a ritagliarmi un’oasi di serenità (e non fraintendetemi, ho avuto anche la grandissima fortuna di poterlo fare) per dedicarmi al riposo e a recuperare le energie. Ho la sensazione che nei prossimi mesi (anni?) avremo bisogno di tutte le energie possibili per combattere, perché ci aspettano tempi bui.