TFF OFF 2012 / Recensione

Parallax sounds

Parallax sounds

Sezione TFF 2012: TFFdoc/Italiana.doc

Categoria TFF OFF: 50 sfumature di sfiga, perché da Chicago arrivano tutti i migliori inni al disagio e all’emarginazione sociale e perché le colonne sonore delle opere che concorrono in questa categoria generalmente si ispirano alla sua scena.

Un buon documentario dovrebbe implicare il totale eclissamento del regista e l’astensione da qualsiasi giudizio. Ovviamente è un’utopia ricercata dai documentaristi, ma in linea di massima i documentari più riusciti sono formalmente asettici e freddi.

Parallax sounds è una bell’eccezione a questa regola. Più che un documentario, è una dichiarazione d’amore ad una città, Chicago, e alla suo ricco e sfaccettato underground musicale.

Il documentario è incentrato sulla scena Anni ’90: a New York i jazzisti incontravano il rock per nuove forme di fusion, dopo una stasi musicale di 20 anni; da Seattle la rabbia giovanile approdava su MTV e la rivoluzione grunge diventava jingle pubblicitario. Sembrava che il capitalismo avesse definitivamente vinto, che non rimanesse “più niente da sperimentare nella produzione musicale non inquadrata nel paradigma del mainstream e del capitalismo”(cito testualmente). Non a Chicago.

Una vera e propria contro-controrivoluzione parte tra le strade omonime e infinite della capitale musicale della Midwest Coast. Alfieri di questo cambiamento Jesus Lizard e Big Black, ma il sottobosco sperimentale di Chicago è sovraffollato di nomi e storie.

Quella di Chicago è una scena di un’eterogeneità spaventosa: c’è chi prosegue e rivoluziona le strade battute dal rock, c’è chi trasforma la ripetitiva e piatta pianta urbana della città in suoni minimali e ossessivi, c’è chi si rifugia in voce, chitarra classica e arpeggi, un po’ come dei preraffaeliti musicisti.

Quello che accomuna però tutti gli attori (attori, non protagonisti) di un palco mai troppo dissonante è la filosofia che guida le loro mani sugli strumenti. La voglia di libertà, il rifiuto di ongi logica commerciale, l’autoproduzione come imperativo morale e il bisogno di sentirsi costantemente perdenti. Perdenti non nichelisti punk né arrabbiati grunge. Perdenti consapevoli, perdenti per vocazione, perdenti per esigenza, perdenti per essere fuori dalla logica capitalista che vorrebbe tutti impegnati in un’impossibile, ingiusta, insostenibile arrampicata sociale.

I musicisti si muovono tra club e locali alla ricerca della condivisione più totale con il pubblico, abbattendo ogni logica leaderista, suonando sul palco l’alternativa a un mondo alienato e impossibile.

In pieno rispetto di questa filosofia da perdenti, il documentario cita il meno possibile i nomi delle band o degli intervistati. Molto è lo spazio lasciato alla città, descritta come una grande cartolina rumorosa e animata. Una città che non è come New York, dove se un musicista viene invitato ad una festa in casa rischia di trovarsi a casa di un VJ di MTV. Per fortuna.

Roberto Origliasso