TFF OFF 2011 / Recensione

Ferrhotel

Ferrhotel

(Simone Traversa) L’ora e dieci circa di documentario è il risultato di un anno di riprese effettuate al Ferrhotel, Bari, albergo abbandonato e occupato da immigranti somali, che hanno fondato un centro autogestito dove accolgono i loro connazionali, offrendo loro una stanza e cibo. Una prima nota di merito al film, la cui regista si chiama Mariangela Barbanente, credo sia la brevità e incisività del documentario, cosa affatto scontata dal momento che, come lei stessa in sala, alla presentazione della prima, ci confessa, al termine dei dodici mesi aveva un sacco di materiale, su cui ha compiuto un attento lavoro di scelta e montaggio. Un secondo punto a favore è dato dall’assenza della voce del narratore. Le voci che sentiamo sono tutte dei rifugiati: la Barbanente ha saggiamente evitato di minare il proprio lavoro introducendo qualsivoglia commento, o critica terza rispetto alle immagini e le storie che ci ha presentato. I contenuti? Beh, è un film sull’immigrazione, ma non risolve la questione in una forma di compassionevole empatia.

Una cosa che ho notato, e che in parte mi è stata confermata dalle parole della Barbanente stessa, è che gli abitanti del Ferrhotel sono persone molto più vicini a noi socialmente di quanto non sospettiamo. In effetti, dai discorsi tra i rifugiati, capiamo che le maggiori preoccupazioni sono quelle che affliggono gran parte dei giovani italiani: la mancanza di lavoro, l’assenza di prospettive, una forma di depressione e di scoramento morale. Il problema è che i giovani italiani possono contare sul supporto delle loro famiglie, i rifugiati, invece, sono costretti a doversi sobbarcare il problema di far giungere la propria famiglia dalla Somalia, remando contro la corrente di carta della burocrazia internazionale, europea e italiana.

La questione non è semplicemente ridotta al “Sì, tu italiano hai un problema, ma guarda il povero somalo”; la questione è ben più seria. I profughi hanno abitudini, atteggiamenti e preoccupazioni simili alle nostre perché in Somalia, nonostante la guerra, con ogni probabilità facevano una vita economicamente agiata. Dico questo perché si sente dire da una ragazza del Ferrhotel che se fosse per lei tornerebbe in Somalia, e che la sua famiglia potrebbe anche pagarle il viaggio, ma la madre la vuole lontana, per risparmiarle ulteriori sofferenze. Questo, con tutte le dovute precauzioni, non sembra però troppo dissimile dai nostri cervelli in fuga, certo non fuggiti a causa di una guerra, ma che in qualche modo vivono lo stesso senso di disagio di chi è costretto a stare lontano da casa per necessità.

Il paragone potrebbe risultare eccessivo, ma bisogna tenere in conto che tutti gli abitanti dell’hotel sono muniti di permesso di soggiorno, si sono sistemati, hanno attraversato vittoriosamente quella “zona grigia” che separa la clandestinità dalla legalità: insomma, sono storie di persone alle prese con una nuova quotidianità, spesso deludente e frustrante, e che provano nostalgia per una quotidianità da cui sono fuggiti. Un ragazzo, molto triste, decide di fare visita a sua madre in Somalia, e quando ritorna al Ferrhotel dice di aver parlato con lei per due notti di fila: confessa ad un’altra ragazza che lui, anche se ha 30 anni, ha bisogno dei consigli di sua madre.

Insomma, credo di essere maggiormente colpito da questo tipo di storie, perché in qualche modo riflettono esigenze e preoccupazioni che sono anche mie, e il merito della Barbanente è quello di averle raccolte e presentate in tutta la loro autenticità.