TFF OFF 2013 / Recensione

Ida

Ida

di Pawel Pawlikowski, Polonia, 2013, DCP, 80′

Sezione TFF 2013 – Festa Mobile

Fin dalle prime inquadrature quello che colpisce di Ida, film del polacco Pawlikowski, è il senso di eleganza più che la storia, per altro molto potente, della protagonista. A concorrere a questa sensazione contibuisce di sicuro la fotografia, un bianco e nero mai lezioso e usato con intelligenza, la scelta delle musiche, le scenografie minimali ma curatissime.

Un duplice ritratto femminile, quello di Ida, orfana e novizia in procinto di prendere i voti, e quello di sua zia Wanda, procuratore e donna del Partito.

La storia è ambientata negli anni ’60 e prende avvio in un convento nei pressi di Łódź (la città del cinema polacco, la città dove ha studiato Kieślowski, per dirne uno) dove conosciamo Anna che, come le altre giovani novizie, prenderà i voti da li a poche settimane. Anna, da che ricordi, è sempre vissuta in convento e non ha motivo per volerne uscire. Ma la madre superiora, prima che prenda delle scelte definitive, la mette in contatto conla zia Wanda, unico suo parente in vita, e le comanda di rimanere per un periodo da lei.

Le due donne sono diversissime: Wanda è una donna forte e indipendente, con un lavoro rispettato e che ai tempi della rivoluzione socialista era in prima fila per far condannare i nemici del popolo polacco e ormai in declino nella vita lavorativa e politica, che non nasconde la passione per gli uomini e l’aloc e si circonda di bella musica e bei vestiti; Anna è di poche parole, con una valigia particolarmente vuota. Non sappiamo cosa pensi poiché non lo dice e i suoi rari gesti non lo svelano. Ma la vicinanza tra le due donne le costringerà a cambiare e confrontarsi: Anna scopre di essere ebrea di famiglia e che il suo vero nome è Ida, Wanda è costretta a riguardare in faccia il suo passato e quello della sua famiglia quando la nipote manifesta il desiderio di pregare sulla tomba dei parenti.

Un viaggio tra case, ipocrisie della storia della cattolicissima Polonia (dove si denunciavano le famiglie ebree in fuga per impadronirsi poi dei loro beni), cimiteri e hotel dove Ida conoscerà pezzi del mondo, dei sensi, la musica Jazz. Conoscerà meglio se stessa e proprio lei, nelle prime scene così anonima nascosta dietro alla veste e al velo, tornerà con nuove consapevolezze alla vita che finalmente puà scegliere. Una bellissima scena finale dove silenzio, sguardi, luce disegnano un ritorno perfetto.

Per Wanda invece la riscoperta della propria famiglia sarà vivere un destino che troppi ebrei, in Polonia e in tutta Europa, hanno dovuto condividere.

L’uso del bianco e nero, i due personaggi femminili, la colonna sonora di Mozart e Coltrane, potevano rendere il film un miscuglio di cliché e stereotipi. Invece tutto appare così equilibrato e bilanciato, sobrio ma mai spoglio. A ricordarci che se per fare un buon film forse possono bastare buoni ingredienti, per fare un bel film, uno di quelli che ti fanno amare il cinema, serve anche una mano sapiente che sappia usarli, dosarli e trasformarli in magia.

di Roberto Origliasso